L’ aulòs metopa sonora dell’anima: teologia della liberazione antelitteram
L’Atto Secondo di Pantea di Michele Lizzi si apre con un bellissimo “Inno al Sole”. Nel libretto di Gerlando Lentini, poeta di Agrigento, da Lizzi musicato si legge:
“Una musica fragilissima trasognata canta l’inno del sole. E’ un trasalire misterioso entro la luce”.
E’ lo stesso Sole che sorge nel Primo Atto ed illumina Akraganto e la sua Acropoli. Il Sole illumina anche il Tempio di Zeus: il Sole, quindi, per metonimia, è Zeus. Lizzi sa di muoversi all’interno di un contesto storico dove vige il politeismo. Fin dall’inizio dell’opera gli archi richiamano il tema di Pantea con opportuni interventi del Coro, ma è il Corifèo, voce recitante, che presenta il dramma. Questi recita un’ottava di endecasillabi sciolti. Si tratta di un’ottava tipica della poesia religiosa del XIII-XIV secolo. E che in seguito continuerà ad essere usata nei versi religiosi e nelle Sacre Rappresentazioni. Ebbene, sotto i riflessi e le razzature cromatiche dell’alba nascente, il Corifèo coi seguenti versi dedica a Zeus il dramma amoroso di Pantea:
Zeus immortale, padre degli dei
e signore della terra, che soggiaci
tu pure al fato sacra teoria,
noi ti rechiamo il dramma di Pantea.
A te l’offre il poeta, a te che forse
i nostri crucci intendi e l’ansia folle
di rompere i suggelli della vita
e il silenzio implacato della morte.
E il culmine di questo richiamo religioso politeista si ha sempre nel Primo Atto nell’accoglienza festosa, e con una spettacolare Marcia Trionfale, sempre nel nome di Zeus, in onore di Senocrate, vincitore akragantino dei giochi pitici (con chiari richiami a Pindaro). Senocrate aveva stravinto col cocchio. Il vincitore, promesso sposo di Pantea canta, o meglio usa il recitar cantando, con altri endecasillabi dal richiamo religioso:
O città di Persefone, che l’erta
hai del fiume Akraganto, a te consacro
la mia pitica palma e la vittoria.
È sotto questo aspetto teologico politeista che verrà presentato l’ “Inno al Sole” che apre il Secondo Atto.
Come risolve musicalmente Lizzi le indicazioni sonore date dal poeta Lentini?
Questo “Inno al Sole” di Lizzi ci spinge a rievocare due altre albe musicali: l’Alba nel Prologo di Attila (1846), opera di Giuseppe Verdi (con richiami religiosi al monoteismo cattolico) e quell’altra di Félicien César David presente nel cuore della sua Ode Sinfonica “Le désert” (8/12/1844) con citazione di Allah, monoteismo coranico. Tutti e tre gli “Inni al Sole” o “Albe” sono, quindi, lampi mentali evocativi, ma, ovviamente, non possono non assumere aspetti descrittivi: si tratta di MÈTOPE SONORE che esprimono e rivelano stati d’animo. E’ l’IO cosciente che si lega al DIVINO, alla LUCE, vale a dire all’appagamento della mente. E’ teologia della liberazione ante litteram! Ma con quali strumenti e con che timbri dell’anima esprimere in musica tutto ciò?
Michele Lizzi nella sua ricerca timbrica poteva usare l’antico aulòs? Lo pensava. E allora? Per il suo “Inno al Sole” userà il flauto con un disegno melodico assai delicato, con note ribattute dall’oboe; che riprenderà da solo, dopo l’intervento degli archi, il tema presentato dal flauto. Con questo delicato gioco espressivo Lizzi cerca di ricordare il timbro dell’aulòs; nella sintesi sonora creata dai legni si finge auleta. Come ci ricorda Curt Sachs: “La consueta traduzione di aulòs con flauto è sbagliata e fuorviante”. L’aulòs è infatti uno strumento ad ancia doppia e appartiene alla famiglia degli oboi. L’aulòs suscitava forti emozioni, richiamava l’istintività del corpo, e veniva collegato agli aspetti del dio Dioniso. Per Aristotele l’aulòs era uno strumento da utilizzare per scopo purificatorio. Ebbene, Michele Lizzi, cercando di trascolorare i timbri dei legni usati nell’orchestrazione del suo “Inno al Sole”, riesce nel suo intento di riesumare il timbro di uno strumento che non ha: l’aulòs. Con quel timbro vuole disvelare il “Conscio” non rivelato che però spezzare vuole ogni catena, ogni condizionamento. Michele Lizzi in due minuti e ventiquattro secondi circa, con cesellato e dotto gioco orchestrale, esprime la sua serena concezione cosmica ellenizzante; e l’inquietudine e l’ansia a quella teologia legata. E sembra voglia anticipare il travaglio religioso d’impronta cristiana che, decenni dopo, con ben altro dirompente linguaggio, troveremo nella sua “Sagra del Signore della nave”.
Citiamo Lilia Cavaleri:
l’incontro con Pantea non è per Lizzi una banale frequentazione del mito; è qualcosa di più… Pantea rappresenta il dissidio romantico tra morte e vita: il contrasto tra la realtà contingente ed il mistero dell’esistenza; l’urto tra sentimento e ragione.
E ora riportiamo anche queste frasi dello stesso Lizzi: “La musica come arte (…) non facilmente si piega all’esteriorizzazione di dibattiti interiori in cui due motivi agiscono simultaneamente nell’animo del personaggio in opposte direzioni”.
Ecco perché, in riferimento al timbro dell’aulòs, ho parlato di sonorità che esprimono le MÈTOPE DELL’ANIMA del compositore di Agrigento.
L’alba nel prologo dell’Attila di Verdi
Siamo alla Scena Sesta del Prologo dell’Attila di Giuseppe Verdi, scena che rappresenta la Seconda Parte del Prologo stesso. Massimo Mila nei suoi saggi sugli “anni di galera” di Verdi, quando parla dell’Attila (17 marzo 1846), fa due riflessioni interessanti a proposito dell’intermezzo sinfonico descrittivo, questa volta sì!, sulla laguna e dice che tale intermezzo è “ispirato dall’ascolto di analogo episodio nell’ode Le désert di David” che già Verdi avrebbe voluto utilizzare nell’Alzira, opera composta prima di Attila.
Sempre Massimo Mila nello stesso saggio afferma: “Venne approvato (dai giornalisti di allora, nda) soprattutto il densissimo Prologo, e la descrizione sinfonica dell’aurora suggerì ai giornalisti squarci di prosa poetica” (M. Mila “Verdi”, Bur Rizzoli pp. 323-327).
Ecco come si esprime al riguardo il musicologo Giampiero Tintori:
la pagina strumentale dell’alba tempestosa sulla laguna, il coro degli eremiti, il sole che sorge dopo la tempesta sulle capanne dei superstiti sono pagine di particolare fascino.
Questo sorgere del sole dell’Attila, che parte da isolate terzine sottovoce poi crescenti fino all’esplosione del coro: “Preghiamo! Lode al Creatore”, destò un giustificato entusiasmo. Si è detto che Verdi fosse influenzato da “Le désert” (1844) del compositore francese Félicien David. (G. Tintori, “Invito all’ascolto di Verdi”, Mursia, pag. 110).
Ed Eduardo Rescigno: “Magnifico pezzo strumentale, in cui con mirabile artificio di suoni è imitato il destarsi della natura in sul mattino”.
Volete che Michele Lizzi non conoscesse tutto ciò? O che non lo conoscesse Pizzetti, maestro di Lizzi, che tanto amava e studiava Verdi? Qui gli eremiti si rivolgono al Dio cattolico: religione monoteista nella quale vengono proiettate altre MÈTOPE dell’anima umana in cerca di pace: “D’eterna pace Ei nutre i nostri cor” si legge nel libretto di Temistocle Solera: altro poetico endecasillabo di carattere religioso. Nell’Attila di Verdi il Sole, per metonimia, indica il Dio cattolico. C’è la città di Aquilea (Friuli) ridotta in un cumulo di macerie da parte degli Unni. La MÈTOPA sonora diviene raffigurazione di anime che esprimono desideri di pace in riferimento ad altre caratteristiche che condizionano le libertà delle persone nel corso della storia. La tempesta musicale descritta da Verdi, col suo stile strumentale a noi in parte noto, riflette anche le tempeste intimistiche degli eremiti. Ma è il “Levar del sole” (il suo Inno al sole!) che ci affascina e per il fluido trascolorare del timbro di alcuni strumenti musicali. E lo fa con delicati giochi sonori (terzine diceva Tintori) di flauto, legni, archi e con un lancinante e liberatorio crescendo orchestrale e corale per poi finire con un pianissimo finale del coro fuori scena che ripete “Lode al Creatore”. Disegni sonori e uditivi: altre mètope di anime in cerca di Sole e di Liberazione! Ma qui non si pensa all’aulòs, il versante è piuttosto apollìneo. Col flauto si tende verso l’alto. Meglio, per noi, il politeismo greco.
Le Lever du Soleil nell’ode sinfonica “Le désert” di Félicien David
Questo “Levar del Sole” (o Inno al Sole) di Félicien David si apre con un pianissimo tremolo di violini sopra una nota molto acuta. Sul tremolo quasi impercettibile interviene la voce recitante:
Des teintes roses de l’aurore
la base des cieux se colore:
l’astre du jour rayonne tout à coup
comme un hymne sonore
et remplit le désert de lumière et d’amour.
(Le cromature rose dell’aurora colorano la volta celeste: l’astro del giorno irradia d’un colpo al pari di un inno sonoro e riempie il deserto di luce e di amore).
Il tremolo dei violini non si arresta e s’inserisce un breve fraseggio melodico espresso delicatamente dal flauto e poi, a seguire, dall’oboe e del clarinetto, mentre gli archi in crescendo tolgono i sordini e a poco a poco tutta l’orchestra prorompe in un fortissimo sopra la melodia prima ascoltata. Questo “Inno al Sole” di David ha quasi la stessa durata di quello che Lizzi espone in Pantea. Ma qui il sole irradia il Deserto e dà forza a chi anima la Carovana in viaggio. Il Sole è metonimia di Allah. Le Désert di David indicò ai compositori europei una maniera nuova di utilizzare l’elemento esotico all’interno della tradizione occidentale (scrittura melismatica, melodia basata su sequenze modali, uso dei timbri nasali degli strumenti a fiato…). E il canto del Muezzin, che segue, tende ad onorare, coi melismi espressi dal tenore, “Maometto, messaggero di Allah”: chiara allusione ad un’altra religione monoteista, quella coranica. “Le Désert est notre patrie:/ nous sommes libres, fiers, forts”, come si legge nei versi dell’Ode di Auguste Colin.
E nessuna divinità merita di essere onorata al di fuori di Allah. In questo caso le MÈTOPE sonore rivelano che la solitudine che si vive nel deserto (o che si ha dentro) diviene libertà ed appagamento mistico nel proiettarsi con tutta l’anima nella maestosità di Allah. Le “Cinque Musiche per Teano” (1942) di Lizzi ci riportano a questa struttura narrativa di David: voce recitante, orchestra (ma senza solista e coro). Voce recitante (Corifèo) che, come già detto, apre anche l’opera Pantea. “Un grande compositore è nato. Si chiama Félicien David e il suo capolavoro s’intitola Le Désert” (Hector Berlioz).
Michele Lizzi da Akragante (col suo TRÌGLIFO operistico: Pantea, L’Amore di Galatea, Sagra del Signore della Nave) irradia -ritmi e timbri innovando- le MÈTOPE sonore delle opere grandi.
Bagheria, 10 maggio 2024
Giuseppe Di Salvo
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