Mer. Dic 18th, 2024

Dei motti popolari non ci stanchiamo mai e torniamo volentieri con il nostro Professore Russo a ricordarne una nuova serie con la loro saggezza, arguzia, e sapidità.

I detti popolari non hanno certamente un valore culturale (secondo noi si n.d.r), ma sono un documento sul costume popolare.

Una finestra su cosa pensavano i nostri avi di certe questioni della nostra vita di tutti i giorni. Sono giudizi di ordine morale e sociale. Alcuni sono validi ancora oggi, altri sono ritenuti sorpassati in nome della modernità. Le persone di una certa età continuano ad adoperarli, sostenendone ancora la validità trasversale a tutti le generazioni.

Noi non siamo per la modernità a tutti i costi, ma sosteniamo che se c’è qualcosa di buono nel vecchio non va gettato alle ortiche per puro spirito di moda. La modernità deve portarci avanti; se non lo fa è inutile operare modifiche che non portano a nulla di positivo. Nella parlata popolare, sin dalla fine dell’ottocento, i detti erano parte integrante del discorso. Essi avevano vari caratteri: servivano da monito, suggerivano modi di interpretare la realtà o modi di fare. Le persone parlavano utilizzando continuamente detti più o meno noti. Chi non ne conosceva non poteva articolare agilmente i suoi discorsi. Qualcuno aggiungeva la traduzione in italiano, ma in genere tutti conoscevano il loro significato.
detti venivano dal popolo, ma li adoperavano anche i professionisti. Era, insomma, un modo per capirsi e non cadere in equivoci. Solo i professori a scuola cercavano di evitare i detti per non cadere nel ridicolo (anticamente per allontanare il sillogismo dialetto-sottocultura-ignoranza ampiamente superato ai nostri giorni dove il popolare è cultura n.d.r.). Nelle case il detto faceva parte del linguaggio di ogni giorno (tanto che alcuni sono diventati luoghi comuni n.d.r.).

Adesso elenchiamo anuovi detti, lasciando come al solito al lettore il piacere di sfirniciarisi nella interpretazione.

U mmastinu nna tunnara.

Scattari avi a buttana cicala!

Signuri ti ringraziu ca pi cacari nun si paia raziu e pi fari na bedda cacata nun c’è bisognu ri carta abbullata.

Cu futti futti e Diu pirdona a tutti.

O ti mangi sta minestra o ti jetti fa finestra.

‘A sasizza nculu s’appizza.

Cu avi culu cunsiddira.

Cu s’avanta ca so vucca o è sceccu o è cucca.

Va faciti beni ‘e porci.

Si la passanu di manu in manu comu chidda di lu saristanu.

Chissà unni cci lucinu l’uocchi !

Mi li scippa da li manu!

Ma vieru riccillu!

Mi stricassi ntierra!

Strofa di antica canzone popolare dal sapore audace scevra da qualsivoglia imputazione di valori patriarcali o istigazione alla violenza:
‘U varveri iddu va, iddu veni ‘u rasolu mmanu teni. Si cci acchiana ‘a fantasia figghia mia ti fiddulia.

E buone feste per tutti!

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Di Antonino Russo

Bagherese del ‘36, nel 1959 si trasferisce a Napoli per insegnare in una “elementare” nel popolare e pittoresco rione Vergini - Sanità. Si lascia coinvolgere dai fermenti culturali di Bagheria, dandosi proficuamente alla poesia, ma anche alla saggistica e alla narrativa. Collabora con numerose testate, è sociologo dal 1990.